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ALFONSO GUIDA –
4 POESIE DA “POESIE PER TIZIANA” (IL PONTE DEL SALE, 2015)
LA
POESIA COME PENITENZA
Ogni
poeta che sia tale scrive un’unica poesia, ininterrotta, per tutta la sua vita.
Una penitenza, un’estrema conseguenza che non si sconta, che solo si può
accettare. Un poema, in definitiva, è la vita stessa del poeta. O meglio, è la
possibilità della vita. Giacché, in poesia, si traccia l’impossibile per
riconoscerlo possibile. E tutti i poeti forti, sanno di lavorare ad uno scavo,
che forse non porterà alla verità, ma di certo travalicherà i confini del
possibile e dell’impossibile. In questo solco, Alfonso Guida, da sempre, segna
un’identità del reale attraverso il perdono della propria realtà. E lo fa con
la perizia estrema dei poveri, riconciliando le sue energie vitali al
primordiale senso di appartenenza al non luogo, a quella cavità, o grotta se vogliamo,
che è la coscienza stessa. Ed è qui che si fa conoscenza, l’impossibilità
dell’io, diventando l’altro. L’altro che è in tutto ciò che si prova quando
manca la volontà, o diventa parziale luogo d’attesa. Alfonso Guida nelle sue
poesie sembra attendere, e nel momento stesso dell’attesa, dona le sue
mancanze, le fragilità ma soprattutto le passioni elementali dello
smascheramento umano. Ecco che la poesia si fa nuda priorità di destino. Il
poeta forse lo sa, e non dice altro che se stesso. Questa quinta prova che ho
avuto modo di leggere, dopo “A ogni passo del sempre” (“Poesie per Tiziana” ne
è una continua) “Il dono dell’occhio”, “Irpinia” e “L’acqua al cervello è una
foglia”, conferma, come i precedenti libri, l’autorità del silenzio che Guida
arma nel paesaggio della propria intuizione. Che non è mai finzione, o
presunzione d’innocenza, piuttosto una prossimità di reale che si spoglia,
appunto, che si arrende al nudo dell’esecuzione. Ed ecco la penitenza, il nero
arrendersi al reale. Certamente è un referto, questo libro, e ci sono luoghi,
personaggi, testimoni di un’esperienza iper reale fatta dal poeta, in uno dei
suoi tanti momenti di smarrimento psichico, o, se vogliamo, di ritrovamento con
il disumano, e dunque col vero. Guida affronta il proprio smarrimento con la
tensione di un artigiano, e l’elettricità di un’energia morale. Alfonso Guida è
un testimone di lotta del nostro presente, un importante custode della poesia
italiana di oggi. E questa sua ultima fatica sembra incrollabile nella sua nudità
prosaica, proprio perché nella poesia di Guida questi eremi poetici formano
solchi di senso e di suono che, cedendo, non stridono, piuttosto formano una
nuova propensione umana alla ridondanza dell’ossessione. La cosa che meraviglia
è che in Guida la ridondanza diventa silenzio, ed è un disfacimento trionfale,
della psiche che soffia raminga il proprio diniego. Devo dire che Alfonso Guida
è un prezioso reperto, un fossile divino che quando ascolta (perché Guida
ascolta scrivendo e non viceversa) scheggia l’orma antica della morte
attraverso il miracolo della propria penitenza. L’estrema conseguenza, in
questo caso, è la nuda poesia, la verità poetica dell’autore di San Mauro
Forte. Ma, davvero, bisognerebbe dire molto altro sulla poesia di Alfonso, ci sarebbe
da dire tanto altro. Spero che i critici veri, i poeti forti lo facciano, prima
o poi, perché non c’è modo di fermare la verità, si può solo renderla più
vicina al nostro prossimo. C’è bisogno di poeti forti come Guida, c’è bisogno
di questi veri custodi della nostra penitenza.
Antonio
Bux
*
Giunge
il tuo respiro da Torremozza in
qua.
Sento i tuoi passi accrescere l’ansia
delle
mie aspettazioni. Posso scrivere
di te,
soltanto di te e del mio paese.
Ti
distillo dal basilico verde
che
fiorisce sul mio balcone, cerco
da
lontano le vie selciate che urto
come
fossi un puledro al primo scalpito.
Sono
uno schiavo e la mia sudditanza
cresce
in quanto a lingua, a luce, a materia.
Non è
vero, non esiste l’ambrosia
ma il
vino decade folle dalle mie
tregue,
da questa scrittura che apporta
nocumento,
e nocumento felice.
Tu vai
ai tavolini del bar, ti vedo,
ti
spio, vorrei esserci, sarebbe il dono
più
eloquente, ma io vivo in povertà,
poche
ciotole, certo. Tra i miei libri
durante
la stagione dei morti non
manca
il crisantemo. Invece tu accumuli
referti
e slanci. E i sogni maledetti
dei
manoscritti acefali. I miei sono
cupi e
randagi, in te mi apro ai germogli.
*
Tutti i
proiettili mi hanno colpito.
Ne
resta uno: l’ascia del reclusorio in
cui mi
hanno guidato. Non c’è polvere oltre
l’esemplare
partitura del nostro
mistero.
Io sono il tuo vassallo. Penetri
la mia
mente con le fioriture algide,
remote
della mia desolazione.
Ci sono
vuoti messaggi, vuotissimi
presentimenti
in fondo alle fiale. Tra
te e me
la sana scienza del pudore
custodisce
bene e senza perdono
né
riparo quel viatico scalzo che
è la
degenza interiore dell’arte.
Vedere
la mia cecità, inespiabile.
*
L’acqua
e il vino si tramutano. Siamo
noi
stessi il primo incontro con la terra.
Siamo sentinelle
di una pietà
guardinga,
inesplorata. Noi cerchiamo
la
moltiplicazione dei pani. Poi
sarà la
volta dei pesci. Cerchiamo
povertà
e discepolanza. Ogni mente
soffre
e soffre molto e il cieco pigolio
della
memoria ci abbandona tutti
come
fossimo cadaveri irosi
che
mangiano radici di forsizia
nei
campi. Qui sono falsi gli applausi
dei
festeggiamenti. E vorticose le
mani
aggrappate alle barriere ataviche
dei
letti. Aspettavamo l’ombra che era
fuggita
chissà dove, forse nella
spelonca
immiserita dell’attesa.
Eravamo
tutti seduti al tavolo
grande
in cucina. Eravamo a Cana.
*
Noi che
non siamo dittatori ma esseri
placidi,
innocui, afferriamo la nostra
malattia
come fosse una liturgica
sapienza,
l’incarnato coreiforme
di una
natura tangibile, avara,
ma fremente
nel suo crine, tra le ombre
che
giocano a svegliarci, Tiziana, una
cartapesta
inumidita dal sole,
le rose
invecchiate, la pelle spenta,
desquamata,
inorridita, noi abbiamo
la luce
in corpo, l’affetto unigenito,
dissertiamo
su emozioni letargiche.
La
Storia incede, trova conclusione
tra le
steppe dove non c’è aggressione
né la
neve ci fa lustra pigrizia,
solo i
garretti scorrono veloci,
dragati,
ci adagiamo sull’inizio
dei
fossili violando l’aperto cuneo
dei
fiori malandati, il sonno asperso
di bontà
pomeridiane, ma resta
sconosciuto
e silente il tema, forse
l’inezia
ponderata del sangue ci
trattiene,
forse nasconde il colore
subdolo
e strisciante del nostro seme,
seme
che ogni giorno beviamo dalle
mani
oriunde del fratello di Abele
che
morì maledetto tra le braccia
del
Signore, tra le mezze selvatiche
paure
del sole che veglia in mia madre.
4
poesie di Alfonso Guida
tratte
da “Poesie per Tiziana” (Il ponte del sale, Rovigo, 2015)