Marco Munaro sembra aver scritto “Berenice” per placare sé stesso come autore e come essere. Non come uomo, bensì come essere, perché in questo libro lui è un essere dell’Ente. Si cala totalmente pienamente ciecamente nel «gran mar de l’essere» per naufragare e naufragare. Riemerge e vede lei, Berenice; naufraga e chiama lei, Berenice. Ogni immersione lo purifica e lo trasforma, gli dà la veggenza perché gli dà l’oblio di sé. Resta pensante, ma in forma d’albero, d’uccello, di macigno, di astro, di morto, di vivo, di risorto.
dalla postfazione di G. Maretti Tregiardini
La finestra incornicia il tuo volto
il tuo volto alla finestra
È una finestra di pietre
dove si arrampica un sambuco che suona
Tu appari è un volto
di canali e fornaci,
di canali e dogane
eppure esisti, festeggi,
sei nel migliore dei mondi possibili
quello che sei è proprio in questa finestra
Esisti vero?
Sempre qui si capisce
carne e nervi
sangue fiorito nel mistero
il tuo volto alla finestra
È una finestra di pietre
dove si arrampica un sambuco che suona
Tu appari è un volto
di canali e fornaci,
di canali e dogane
eppure esisti, festeggi,
sei nel migliore dei mondi possibili
quello che sei è proprio in questa finestra
Esisti vero?
Sempre qui si capisce
carne e nervi
sangue fiorito nel mistero
Nessun commento:
Posta un commento