Ruggine e oro, di Marco Munaro  (Castelmassa , 1960), prefazione di Pasquale Di Palmo, postfazione di Stefano Strazzabosco, con un’immagine di Paolo Gioli, La porta delle lingue N. 52, € 18,00

BRINGING IT ALL BACK HOME
di Stefano Strazzabosco

Da una casa nascosta, poi inghiottita dal bosco inizia questo viaggio: quasi un pellegrinaggio, a passi tardi e lenti, camminando lungo l’Adige – perché «solo chi cammina si accorda / alla terra che gira» –, nella striscia di terra che sta tra questo e il Po, cioè nei luoghi natali di Marco Munaro, in cui tuttora vive con la sua famiglia; e alla casa ritorna, alla fine del libro, tra «i fili d’erba matta / le spighe d’oro / i cardi che tra poco scriveranno / i loro calligrammi nell’aria», dal figlio che nel deserto mattutino sente il suono delle campane, e si sveglia: perché il percorso è retto da «un ordine per così dire notturno» e, anche se tocca volti e paesaggi radiosi, ciò che descrive e cerca di esorcizzare è un buio che «contiene poi i mesi le stagioni e gli anni», «mentre intorno infuria la guerra». Un andare nello spazio e nel tempo, dunque: ma generati e portati dal buio, verso il chiarore d’ombra della luna nuova e fino a – chissà – un risveglio di luce.
Fin dall’inizio si cammina verso il Tartaro: che è il nome del Canalbianco – il Po di Levante grazie al quale, intorno al IX secolo, è sorta la stessa Rovigo – ma è anche il tenebroso regno dei morti descritto da Esiodo, e da tanti altri; e il percorso attraversa luoghi reali o perduti come la città di Carpanea, distrutta da un terremoto, e sommersa; o i paesaggi dell’infanzia, che resistono solo nel loro fulgore memoriale, dentro nebbie che accecano, trattenuti negli imperfetti che mentre ne ribadiscono grammaticalmente l’esistenza, al tempo stesso li svaporano. 
Un viaggio a piedi, come quello di Dante; e insieme un itinerarium mentis, ancora come in Dante, attraverso stazioni che sono anche le tappe di una personalissima via crucis, tentando di ricucire con pazienza tutta un’idea di mondo a partire dai suoi quattro punti cardinali – uno per ogni sezione – e fissata nelle parole che in Maruscan vengono piantate come chiodi «a mo’ di scongiuro»; ma un mondo il cui asse congiunge sottosuoli e cieli, e passa dritto per il cuore.(...)


ADIGE (OVEST, EST, NORD, SUD)
Sono nato sulla riva sinistra del Po, ai piedi di un ponte in chiatte,
ho lo sguardo della corrente, il sentire tenero e forte della Natura.
Vivo da anni sulla sponda destra dell’Adige, a pochi chilometri
da quella favolosa dell’infanzia e dell’adolescenza, dove ho imparato
a nuotare. L’acqua dei fiumi dei navigli dei canali dei fossi è
entrata in me nel mio fluire e insabbiarmi, nella mia musica segreta
e nei miei silenzi.
L’Adige era il fiume che raggiungevo da ragazzo andando a La
Tureta, a San Pietro Polesine, verso Legnago e il Tartaro pieno di
pescegatti e tinche, nelle grandi valli; o che attraversavo per andare
alla casa dei nonni, dopo Badia: un paesaggio di altre valli e paludi
nel movimento irrequieto del fiume che aveva lambito, un tempo, i
Colli di Este: Villa d’Adige, Piacenza d’Adige, Arquà, case sorte su
una delle sponde del fiume e dei suoi alvei, che avevano cambiato
corso con le piene e le rotte. Prima del Mille, da una di quelle rotte,
si era formato a sud il ramo del fiume che solcava e cingeva Rovigo,
quando si apriva alla meraviglia incantata di chi vi arrivava in
battello.
Vedo il groviglio delle acque separate, sento
il labirinto dei loro vasi comunicanti.
Dietro corre l’acqua gelida dell’Adige, nella sua corsa porta la
memoria non del tutto cancellata della rupe, gli orti e i mulini scomparsi,
la barca su cui sognavo di arrivare al mare. Ma a piedi vado
verso Verona, sull’argine tagliato dall’autostrada. Il letto pensile del
fiume scorre sotto il cuscino, le capre risalgono le rive erbose controcorrente
mentre intorno infuria la guerra.
Il bosco nasconde e poi inghiotte la casa.

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